HEIDEGGER: L'ESSERE - I QUADERNI NERI




Ma che cosa vuol dire storia dell’Essere? Non è né una visione della storia né, tanto meno, l’oggetto di una storiografia.
Geschichte, storia, rinvia a Geschehen, accadere. La storia dell’Essere è l’accadere dell’Essere, che si dà ogni volta nel suo frangersi storico.
Il grande problema della filosofia, l’essere, viene
riletto alla luce della sua storia, affinché questo verbo, così evanescente e misterioso, possa liberarsi della cristallizzazione
metafisica che dell’infinito grammaticale"essere" ha fatto un ente tra gli altri.
 


La storia dell’essere è l’ontologia è la fondazione d’ontologia è la distruzione dell’ontologia catastrofe della radurapsodiabixaleventusublimexstasyx dell’essere è eventux dell’Essere,
ma anche dal suo abbandono. L’ente sembra non trovare più il vincolo che pure lo lega all’essere. Con insistenza quasi ossessiva Heidegger denuncia la Seinsverlassenheit,
che intende in duplice senso, sia come abbandono dell’Essere,
sia come abbandono da parte dell’Essere. Nell’approssimarsi
della fine, mentre si apre il passaggio all’altro inizio, l’Essere si ritrae. Si può dire, anzi, che il suo ritrarsi, dimenticato, velato, occultato, sia l’indizio del nichilismo compiuto, della fine ineluttabile della
modernità, la fase ultima della metafisica. È la notte dell’Essere.
Nelle Riflessioni VIII, del 1938/39, Heidegger scrive:
«la notte appartiene però all’Essere, non ne è solo una "immagine"», non rende sensibile quel che non è sensibile,dato che la notte non è «nulla di oggettuale e di rappresentabile,
nulla di essente – bensì un essenziarsi dell’Essere».
La notte non ha un timbro negativo; lo avrebbe, se fosse giudicata come negazione del giorno,
così come il freddo viene giudicato come negazione del caldo. Ma «freddo e notte sono gli scrigni nascosti in cui
quel che è semplice si preserva intatto». L’Essere che appartiene al freddo della notte, che lì si è ritratto trovando
riparo, in attesa della fine incombente, è il protagonista oscuro dei Quaderni neri.
Di un tono esoterico...
Heidegger deve aver sempre pensato ai suoi destinatari, sia come scrittore che come oratore. Tra lezioni,conferenze, seminari, discorsi politici, lettere, saggi,
interpretazioni, opere di carattere speculativo, le differenze sono lampanti. Si può ipotizzare una dimensione esoterica della sua filosofia?
Seguendo un suggerimento di Volpi, è forse opportuno avvicinare il modo in cui Heidegger ripartisce i propri scritti al criterio con il quale la tradizione ha suddiviso il corpus Aristotelicum. 
La distinzione fra scritti essoterici, cioè destinati al pubblico, e scritti esoterici, riservati a pochi, delinea, nel segno della continuità, un percorso iniziatico. In una nota autobiografica del 1937/38 Über die Bewahrung des Versuchten, allegata al testamento Wunsch und Wille, è lo stesso Heidegger a proporre la ripartizione che può essere riassunta così:
le lezioni universitarie
le conferenze
gli appunti per le esercitazioni seminariali
i lavori preliminari all’opera
riflessioni e cenni
il corso su Hölderlin (semestre invernale 1934/35) e gli appunti su
Empedocle,
Dall’evento (Contributi alla filosofia).
In questa gerarchia, dove i Contributi dovrebbero rappresentare il culmine, cioè il punto più vicino ai recessi intangibili e arcani dell’Essere, i Quaderni neri, indicati con il titolo «riflessioni e cenni», occupano il penultimo
posto. Heidegger ne sottolinea l’inclinazione alla domanda, la vastità dell’orizzonte, l’immediatezza –
sono «sorti sull’onda del momento» – e lo «sforzo ininterrotto intorno all’unica questione». L’aura, che aleggia
intorno ai Contributi, spira anche sui Quaderni neri, 
li avvolge nel segreto. Entrambi, d’altronde, per volontà di Heidegger, sarebbero usciti postumi. Li accomuna uno stile criptico, che privilegia brevità, insistenza, ripetitività, un linguaggio piegato fino
all’esasperazione, per sottrarsi al dominio della metafisica, e infine quell’unica meta, l’Essere, che sembra quasi allontanarsi via via che
il percorso iniziatico giunge all’apice. Ma se i Contributi paiono più il distillato filosofico, i Quaderni neri, pur serbando il tono esoterico, e anzi proprio per questo, sono scritti con spontanea libertà, e liberamente trattano temi la questione dell’essere e la questione ebraica 
di politica, teologia, filosofia, nel loro inestricabile intreccio, raccontano la storia solitaria e tragica di Heidegger, il suo immane naufragio.
Antisemitismo e i dubbi mai fugati
Già prima della pubblicazione dei Quaderni neri sono
andati affiorando indizi e prove che hanno sollevato
dubbi e alimentato sospetti sull’antisemitismo di Heidegger.
Alle testimonianze sparse dei contemporanei si sono
aggiunti alcuni documenti accademici riservati e, quasi in un crescendo, le lettere private. Si tratta di scritti non filosofici che, nell’intenzione dell’autore, non dovevano
essere resi pubblici. La differenza rispetto ai Quaderni
neri non va dunque trascurata. Tuttavia, anche per la
continuità dei temi, la similarità dei toni, un atteggiamento
di Heidegger che si ripete, il contesto documentario
rappresenta un accesso imprescindibile alle pagine dei Quaderni neri.
Nell’inverno del 1933, prima che fra loro cadesse un
lungo silenzio fino al 1950, Heidegger inviò un’ultima
lettera a Hannah Arendt che gli aveva espresso il suo disappunto per le voci che circolavano. Si diceva che all’università Heidegger discriminasse gli ebrei e che si
comportasse da antisemita. La parola Jude, ebreo, fra di
loro tabuizzata, comparve finalmente nella corrispondenza.
Heidegger si difese negando con forza e respingendo
con sarcasmo quelle voci.
Cara Hannah,
le dicerie che ti inquietano sono calunnie, del tutto simili ad altre
esperienze che mi sono toccate negli ultimi anni.
[…] Che io non saluti gli ebrei è una calunnia così maligna che me la
ricorderò per il futuro. Per spiegarti quali siano i miei rapporti con gli
ebrei, ti elenco semplicemente i seguenti fatti.
C’è qualcuno che, dovendo conseguire urgentemente il dottorato, è
venuto a chiederlo a me, e io l’ho accettato: è un ebreo. C’è un altro
che viene da me tutti i mesi, per riferirmi di un grosso lavoro in fase
di elaborazione (che non è né una tesi di dottorato né di libera docenza), ed è di nuovo un ebreo. Un altro ancora mi ha spedito alcune settimane fa un ampio lavoro perché io lo rivedessi urgentemente: anche lui è un ebreo.
Sono ebrei due borsisti a cui negli ultimi tre semestri ho fatto avere i
sussidi della Notgemeinschaft. Un altro ebreo ancora ha ottenuto, grazie a me, una borsa per Roma.
Chi voglia chiamare tutto ciò "antisemitismo militante", lo faccia
pure.
Peraltro in questioni universitarie sono antisemita adesso quanto lo ero dieci anni fa a Marburgo, quando questa mia posizione antisemita ebbe perfino l’appoggio di Jacobstahl e Friedländer.
Questo non ha niente a che vedere con i miei rapporti personali con
ebrei (per es. con Husserl, Misch, Cassirer e altri).
E tanto meno può toccare la mia relazione con te.
Come reagì Hannah Arendt a una lettera del genere?
Che cosa pensò della parola Jude, che scandisce il testo, e
con cui Heidegger traccia una separazione netta tra tedeschi e ebrei, tra se stesso e quegli ebrei tedeschi, colleghi
e allievi, dei quali viene sottolineata la sola appartenenza
ebraica e il numero non esiguo? Certo questa lettera dovette contribuire alla scelta di Arendt che lasciò la
Germania nell’agosto del 1933.
La difesa di Heidegger è talmente ambigua da volgersi in un’autoaccusa. Al di là del tono irato, con cui rivendica
la sua generosa disponibilità e gli speciali favori accordati
agli ebrei, quel che colpisce è il modo in cui reclama il diritto a essere «antisemita» in questioni universitarie.
Un conto sarebbe l’antisemitismo enragiert, arrabbiato,
rabbioso, accanito, un altro quello accademico. Come se dunque l’antisemitismo all’università fosse motivato,
razionale al punto da non avere ripercussioni sui rapporti personali.
Sono peraltro questi i due argomenti che ancor oggi vengono addotti da coloro che tentano di scagionare Heidegger.
Il primo argomento, a ben guardare un ragio
namento capzioso introduce surrettiziamente una distinzione 
tra l’antisemitismo militante, biologico, razzista,nazista, e l’antisemitismo cultural-universitario, che si
vorrebbe aleatorio e innocuo. L’argomento suona così:
dato che l’antisemitismo è biologico, e Heidegger non condivideva questa ideologia razzista, non può essere accusato di antisemitismo. Il secondo argomento
riguarda gli amici: dato che Heidegger ha avuto per anni e decenni rapporti con ebrei, non deve essere stato antisemita.

Nella Germania del tempo, in cui vivevano oltre cinquecentomila
ebrei, non doveva essere facile evitare ogni
frequentazione. Furono i provvedimenti del Reich, che dall’aprile 1933 cominciarono a escludere gli ebrei dagli
uffici, dalla sfera pubblica e, con ritmo sempre più rapido, dalla vita del paese, a definire i limiti delle relazioni
umane. Ma al di là dei provvedimenti, anche gli
antisemiti convinti e dichiarati, non avevano alcuna difficoltà
– come ricorda ad esempio Löwith – a «scindere le relazioni personali con gli ebrei dalle necessità
"oggettive"della politica nazionalsocialista». Questa era la norma anche per il giurista Carl Schmitt.La situazione
quasi schizofrenica non sfuggì a un’acuta osservatrice come Simone Weil che, in visita a Berlino, in una lettera dell’agosto 1932, scrisse: «ma ancora una volta i sentimenti,
antisemiti e nazionalisti, non appaiono affatto nei
rapporti personali».
Nell’università, e in genere nel mondo intellettuale, la
presenza ebraica era notevole.Era forse per questo inevitabile
reagire con un antisemitismo concorrenziale, universitario
o spirituale? Era comprensibile il timore per laVerjudung, la giudaizzazione dell’università?
Due volte almeno Heidegger ha usato questa parola. In
una lettera del 2 ottobre 1929 metteva in guardia Viktor Schwoerer, un alto funzionario del Ministero dell’Istruzione:
siamo di fronte all’alternativa: o dotiamo di nuovo la nostra vita spirituale
tedesca di forze e educatori autentici e autoctoni [bodenständ -
ig], oppure la consegniamo definitivamente alla crescente giudaizzazione,
in senso sia ampio che stretto.
Ma molti anni prima, in una lettera del 18 ottobre
1916, indirizzata alla futura moglie, Heidegger scriveva:
La giudaizzazione della nostra cultura e delle nostre università è in
effetti spaventosa e ritengo che la razza tedesca dovrebbe trovare sufficienti energie interiori per ritornare in auge. Quanto meno il capitale!
In senso stretto la «giudaizzazione» indica il numero elevato di ebrei presenti all’università; in senso ampio rinvia alla contaminazione ebraica dello spirito tedesco.
I due sensi, quello numerico e quello spirituale, sono
ovviamente connessi. Molto diffusa in quegli anni, la parola era stata usata da Richard Wagner nel suo saggio
L’ebraismo nella musica, pubblicato con uno pseudonimo
nel 1850.
Sin dalle prime pagine, Wagner punta l’indice contro l’emancipazione. Der Jude, l’Ebreo è ormai «più che emancipato», al punto che «ora regna». Ne sarebbe una prova la «giudaizzazione dell’arte moderna» che «salta
agli occhi». L’emancipazione ha dato luogo non all’uguaglianza,
bensì al predominio degli ebrei. Per sottolineare
il rovesciamento nei rapporti di forza, Wagner auspica «un’emancipazione dall’oppressione ebraica».
Così formula la tesi di fondo dell’antisemitismo moderno che, pur nella continuità, proprio qui si distingue dall’antigiudaismo
cristiano: Verjudung è la metafora del dominio
ebraico. La civiltà europea è rimasta estranea all’ebreo
che, per quanti sforzi abbia fatto per assimilarsi, fino a cancellare talvolta la propria origine, nella sua natura permanente e immutabile è ontologicamente straniero.
Perciò mina l’arte, la cultura, lo spirito. Da questa visione wagneriana scaturisce una nuova e più ampia
la questione dell’essere e la questione ebraica 
categoria di "Ebreo" la cui essenza negativa si manifesta nella capacità di contaminare con la sua degenerazione e
la sua corruzione. Di più: la modernità diventa «l’epoca ebraica». Sono gli ebrei i veri responsabili di tutti i mali, mentre, per converso, l’ebraismo è «la cattiva coscienza
della civiltà moderna».
Il tema della Verjudung, ripreso da Marr, viene sviluppato non solo da Dühring, ma anche da Hitler che, in Mein Kampf, oltre alle «università giudaizzate», lamenta la giudaizzazione «della nostra anima».
Parlare di Verjudung, come Heidegger fa in almeno due
occasioni, e a distanza di anni, nel 1916 e nel 1929, non vuol dire subire l’influsso di una giudeofobia cristiana,
ancora diffusa in quel cattolicesimo del Baden, forte del suo «strapotere sulle coscienze mascherato da devozione».Piuttosto significa condividere una visione, forse stereotipata, ma comunque moderna, dell’ebreo e
dell’ebraismo. Il timore per la presenza ebraica nell’università e l’ansia per la contaminazione della «vita spirituale
tedesca» si inscrivono in un antisemitismo che nell’ebreo individua non un cittadino al pari degli altri, bensì un non-tedesco, un non-autoctono, irreparabilmente
estraneo e indesiderabile.  
Per la giudaizzazione
non è necessario il contatto: principio di impurità, l’ebreo
è già impuro in tutto ciò che gli appartiene o che partecipa alla sua vita. C’è una scienza giudaica, un’arte giudaica, una musica giudaica, da cui occorre guardarsi. Si
introduce così una separazione tra puro e impuro, sacro e profano, che verrà attestata e consolidata dalle leggi
«sacrali» del Reich, prima fra tutte quella del 15 settembre 1935 «per la protezione del sangue tedesco e dell’onore
tedesco».
Heidegger torna sul tema anche altrove, nelle lettere, pur senza ricorrere alla parola «giudaizzazione». È il caso in cui fa riferimento al volume Hölderlin und Diotima: Dichtungen und Briefe der Liebe, curato dal germanista
Rudolf Ibel per la casa editrice ebraica Manesse. L’8 settembre
1920 scrive:
Lo Hölderlin di Manesse fa ridere per quanto è grottesco – riusciremo
mai a liberarci di questa infezione per giungere a un’originaria
freschezza di vita e a un radicamento nella terra [?] – a volte si è
ormai tentati di diventare culturalmente antisemiti.
Con alcune varianti, la metafora biologica della contaminazione,
l’immagine di un veleno materiale che dovrebbe infettare, corrompere, guastare lo spirito, riaffiora in una lettera spedita a Elfride da Friburgo il 20 giugno
1932:
Ciò che scrivi circa la rivista ebraica e quel Tick [?] l’avevo pensato
anch’io. Qui non si è mai abbastanza diffidenti. […] Ma come ho già
scritto – per quanta forza di volontà i nazisti esigano, è sempre
meglio di questa strisciante intossicazione che va sotto il nome di
"civiltà" e di "spirito", e alla quale negli ultimi decenni siamo stati esposti.
La corrispondenza non è completa. Ma Gertrude Heidegger,
la curatrice, sostiene di aver inserito, «per prevenire speculazioni», tutte le lettere in suo possesso «scritte fra il 1933 e il 1938, citando anche tutte le affermazioni antisemite e politiche relative al nazismo, complessivamente
rare».
L’argomento della rarità non sembra, però, avere qui molto senso – non solo perché non si è certi che il materiale sia completo, ma anche perché evidentemente non è il numero ad essere decisivo.
Se si leggono le lettere seguendo le occorrenze della parola Jude, ne viene un antisemitismo relativamente comune, costituito da stereotipi ordinari e pregiudizi
consueti. In una lettera scritta a Meßkirch il 12 agosto 1920 Heidegger annota:
L’edizione di Lutero mi è ormai indispensabile […]. Qui si parla molto del fatto che adesso gli ebrei portano via molto bestiame acquistato nei villaggi e che in inverno non si troverà più carne […] –quassù i contadini diventano sempre più scontati e gli ebrei e i profittatori sono ormai un’invasione.

La questione dell’essere e la questione ebraica 

Secondo la visione più diffusa, gli ebrei sono accaparratori, intriganti, abili nel raggiro, avidi, attaccati al denaro, più colti, competitivi con gli altri, solidali tra loro, internazionalisti, comunisti. Il 10 agosto 1924, raccontando
del collega Jakobstahl, che ha brigato per far
ottenere al suo assistente uno stipendio più alto, esclama: «questi ebrei!». Il 9 febbraio 1928 commenta beffardamente una brillante valutazione redatta da Walter Bauer:
«naturalmente: i migliori sono – ebrei». Il 9 giugno 1932 osserva che, se «i nazisti sono ancora molto limitati sul piano culturale – e intellettuale», il comunismo, lontano
dall’essere sconfitto, è destinato a diventare «una
potenza enorme»; «adesso tutti gli intellettuali ebrei passano dall’altra parte; pare che il "Berliner Tagblatt" sia comunista ormai da un anno». E inoltre: «ogni giorno
Trotzkij fa pubblicare in Germania un opuscoletto da 20 centesimi, in cui osserva e commenta la situazione e indica la via». Heidegger non sottovaluta la stampa:
«Baeumler mi ha abbonato alla "Jüdische Rundschau", ottima l’informazione e buono il livello. Ti invierò i vari
numeri».
Il gesto della discriminazione, con cui si addita l’ebreo, riaffiora in una perizia su Baumgarten che nel 1933 gli era stata richiesta dall’associazione dei docenti di Gottinga.
A denunciarlo è Jaspers nel 1945: Heidegger ha
detto di Baumgarten: «strinse assidui rapporti con l’ebreo
Fraenkel».Ma Heidegger si difende: «gergo di
partito» – la trascrizione era parziale, la versione ultima non corrispondeva all’originale.
Ben più grave di questo documento, che ha suscitato molte polemiche, è il giudizio, non di rado passato sotto silenzio, di cui fu vittima Richard Hönigswald. Come in
altri ambiti della scienza e della cultura, anche nella filosofia erano molti gli ebrei illustri, da Hermann Cohen a Edmund Husserl, da Georg Simmel a Max Scheler. Fra gli esponenti più prestigiosi del neokantismo, Hönigs -
wald aveva insegnato a lungo a Breslavia, prima di trasferirsi nel 1930 a Monaco dove il primo settembre 1933 fu
messo anticipatamente in pensione. Dal canto suo Heidegger
andava speculando sulla possibilità di
subentrargli
in quella università che – confessava in una lettera del 19 settembre 1933 all’amica Elisabeth Blochmann (ebrea, in
procinto di emigrare) – non era «isolata» come Friburgo; in tale contesto annotava, di passaggio, un altro pregio di
quella sede: «la possibilità di avvicinarmi a Hitler».
E'  difficile dire se Heidegger abbia contribuito all’allontanamento
di Hönigswald; questo è il suo giudizio, stilato il
25 giugno 1933:
Hönigswald viene dalla scuola del neokantismo che ha sostenuto
una filosofia tagliata su misura per il  liberalismo. L’essenza dell’uomo è qui risolta in una coscienza liberamente sospesa nel vuoto
[ein freischwebendes Bewusstsein], e questa, a sua volta, è diluita in
una ragione del mondo logica e universale [allgemein logische Weltvernunft].
Così, con l’apparenza di una rigorosa fondazione scientifico-filosofica, l’attenzione viene sviata dall’uomo nel suo radicamento storico e in quella sua tradizione di popolo [volkhaft] che
proviene da suolo e sangue [seiner Herkunft aus Boden und Blut]. A
ciò si è accompagnato un consapevole rifiuto di ogni interrogare
metafisico, mentre l’uomo non è che il servitore di un’indifferente
cultura mondana universale. Da questa posizione di fondo sono
derivati gli scritti e certo anche tutta l’attività accademica di
Hönigswald.
Al termine della lettera, Heidegger denunciava gli
inganni, a cui la «vuota dialettica» di Hönigswald
avrebbe esposto i giovani, e definiva la sua chiamata all’università di Monaco uno «scandalo» a cui evidentemente
si doveva porre riparo.
Il 10 novembre 1938, durante la Notte dei cristalli, Hönigswald fu preso e internato nel campo di concentramento
di Dachau. In seguito fu liberato solo grazie alle
proteste internazionali, dovute alla sua fama, e riuscì a emigrare negli Stati Uniti nel dicembre 1939.

La questione dell’essere e la questione ebraica 

Metafore di un’assenza

Nei Quaderni neri i termini Jude, jüdisch, Judentum, compaiono per l’esattezza quattordici volte negli ultimi due volumi, cioè nelle Riflessioni che vanno dal 1938 al
1941. Se ne potrebbe dedurre che la presenza sporadica provi la marginalità di un tema che perciò sarebbe, alla
fin fine, irrilevante. Ciò confermerebbe la tesi di chi sostiene che quei passi «non contaminano» la filosofia di Heidegger.
Occorre tuttavia sottolineare che le occorrenze del termine
Jude, e dei suoi derivati, si inscrivono nel contesto
filosofico in cui si delinea la storia dell’essere. Heidegger affronta, dunque, un tema non nuovo nella filosofia occidentale, quello del rapporto tra l’Essere e l’Ebreo.
Se nel drammatico scenario, in cui si decide la storia dell’essere e il destino dell’Occidente, all’Ebreo è riconosciuto
sin dall’inizio il ruolo del protagonista, come si
spiega il silenzio che sembrerebbe avvolgerlo? Nei numerosi indici delle parole chiave, che Heidegger stesso compone e inserisce alla fine di ogni quaderno, non ricorre mai il termine Jude. Perché questa esclusione sarebbe però anche lecito chiedersi come mai, nell’opera
filosofica di Heidegger, concepita per la pubblicazione, l’Ebreo compaia a partire dal 1937, e come mai, fra il 1939 e il 1941, la sua presenza aumenti in modo esponenziale.
Il caso non è isolato, e analogie sono riscontrabili, ad esempio, con quello di Carl Schmitt nei cui scritti le espressioni antisemite affiorano solo nel 1933, diventando via via sempre più frequenti negli anni della guerra.
La presenza della parola Jude attesta l’esplicita identificazione del nemico nella guerra planetaria che la
Germania combatte.
La strategia adottata da Schmitt, che doveva essere diffusa in quegli anni, viene seguita anche da Heidegger.
Se limitato è, nei Quaderni neri, il numero dei passi in cui parla di ebrei e ebraismo, più frequenti sono i riferimenti
indiretti. Mediante il vocabolario teologico antigiudaico,
le citazioni nietzscheane, le metafore biologiche, gli stereotipi
gergali, i termini della lti, la lingua del Terzo
Reich, opportunamente tradotti e rielaborati nel suo idioma filosofico, dove trovano nuova legittimità e inedita
dignità, Heidegger rinvia agli ebrei evitando di menzionarli.
L’attacco diretto diventa superfluo. Grazie ai
codici della retorica antisemita, insinuazioni, sottintesi,
richiami, sebbene impliciti, sono facilmente decifrabili.
Si costituisce così una semantica diretta a supportare la
rete concettuale che accerchia, delimita, tenta di definire
l’Ebreo. E mentre l’ebreo sfugge, e si sottrae, si pretende di coglierne metaforicamente l’essenza attraverso una
serie di simboli, caratteri, prerogative che dovrebbero
renderne la figura. Per indicare allora l’Ebreo figurale, è sufficiente richiamare una di quelle immagini. Così si può passare sotto silenzio il nemico, rinunciare sistematicamente
a menzionarlo, senza per ciò fare a meno di tenerlo sotto tiro. Questa eliminazione ante litteram, quasi un
esorcismo, evita il nome Jude e lascia al lettore il compito di colmare l’assenza.
I passi dei Quaderni neri in cui Heidegger affronta il tema dell’ebraismo sono dunque ben più numerosi delle
quattordici occorrenze. Ne fanno parte  come:
Verwüstung, Entrassung, Entwurzelung, Vorschub, Herdenwesen,
Vergemeinerung, Rechenfähigkeit, Beschneidung
des Wissens, Gemeinschaft der Auserwählter, Unheil,
desertificazione, derazzificazione, sradicamento, favoreggiamento,
essenza gregaria, comunizzazione, abilità di calcolo, circoncisione del sapere, comunità degli eletti,
sciagura. E l’elenco potrebbe proseguire. La visione che
Heidegger fornisce dell’Ebreo va dunque letta all’interno
di questa più estesa rete speculativa.
La questione dell’essere e la questione ebraica 
L’Ebreo e l’oblio dell’Essere 
Nella tradizione filosofica occidentale l’essere viene
ancora pensato sul modello della semplice presenza. Sollevata
già in Essere e tempo, questa critica va assumendo
contorni più precisi negli anni successivi. Consapevole
del peso esercitato da quel modo, ormai consolidato, di
concepire l’essere, Heidegger è spinto a interrogarsi sul
significato della metafisica.
Secondo il significato greco, la metafisica indica il movimento dell’esserci che va metà, oltre l’ente, dischiudendosi
all’essere; se l’esserci comprende l’ente, è perché ogni volta lo trascende, guardandolo alla luce dell’essere,
quel fondo da cui l’ente si staglia.
Ma nei lavori degli
anni trenta la metafisica acquista un senso fortemente 
negativo. 

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