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è del nulla? ontologico OltraNza Hölderlin, di un altro destino per la Germania. Il tempo della Kehre, della«svolta», avrebbe coinciso con una distanza sempre più marcata dal nazismo e dalle sue tragiche vicende.  

Al punto da far parlare di opposizione intellettuale o di resistenza interna.
Sospetto ai nazisti prima, inviso alle forze di occupazione poi, Heidegger dovette subire ostilità e umiliazioni pagando così a caro prezzo quel suo errore fatale.   



Sottoposto, nel 1945, al giudizio della Commissione di epurazione,
fu interdetto dall’insegnamento nel 1946. Decisivo fu il parere di Jaspers. Nell’inverno del 1945-1946 Heidegger
precipitò in una profonda crisi e venne ricoverato in una clinica a Badenweiler; si riprese grazie al lavoro e ai nuovi progetti.  
Qualche anno dopo, il 26 settembre 1951,
fu reintegrato nell’università, senza che gli venisse, però, restituita la cattedra. Con tale atto di riabilitazione si
chiuse formalmente il capitolo “Heidegger e il nazismo”.
Questa versione lascia aperti molti interrogativi. 
Perché Heidegger restò iscritto al partito nazista fino al 1945? Perché non condannò mai quell’errore, se un errore era stato? Perché non prese mai distanza dal passato?
E che dire poi del suo ostentato silenzio, un silenzio muto e impenetrabile, contro cui si sono infrante domande e congetture di poeti e filosofi, da Paul Celan a
Jacques Derrida? 
Dettaglio biografico o nodo filosofico
Se il nazismo di Heidegger è stato un errore, limitato alla politica, contenuto entro un periodo molto breve,
allora può essere facilmente derubricato a vicenda storica di poco rilievo. 
Non sarebbe, anzi, che un dettaglio
capitolo primo biografico. Ecco perché di solito, se non passa sotto silenzio, viene trattato in modo sbrigativo nelle pagine
dedicate alla vita. 
Il dettaglio non riguarda la filosofia.
Che cosa c’entra il rettorato con il superamento della metafisica?
Di qui il fastidio dei filosofi, non tanto per il clamore che il caso ha suscitato nei media, quanto per l’enorme
quantità di pamphlet e scritti polemici che, accanendosi su quel particolare, hanno dato luogo a un dibattito acceso,
talvolta virulento, eppure quasi sempre piatto e superficiale.
L’affastellamento di dati e documenti, fatti e misfatti, piuttosto che chiarire il caso, lo ha semmai reso ancor più oscuro. La discussione, nella sua evidente
mediocrità, si è prolungata, tra fasi alterne, restando quasi immutata.  
Perché anche gli esperti accusatori, spesso inconsapevolmente, riducono il nazismo di Heidegger a un vissuto storico. 
Così finiscono per avvalorare la versione
ufficiale. Non è un caso che i loro contributi siano in genere privi di spessore filosofico. Ma chi è concentrato
sulla storia dell’essere, sul linguaggio poetico, sul nuovo inizio, non è interessato – perché dovrebbe? – a difetti,
bassezze, contraddizioni, meschinità del personaggio. La miseria del filosofo non è la miseria della filosofia.
Verrebbe da dire che hanno ragione gli analitici quando, non senza sforzo, tengono separate vita e filosofia.
Il problema si è posto di recente con la pubblicazione di lettere, diari e testi inediti di Ludwig Wittgenstein.
Che uso è lecito farne? In che modo la biografia di un filosofo può essere importante per il suo pensiero? In nessun
modo – rispondono gli analitici. Eppure è lo stesso Wittgenstein a scrivere: «Il lavoro filosofico è […] un lavoro su se stessi.  
Sul proprio modo di vedere le cose».
Questa domanda, per i continentali già molto antica, è
emersa nel delicato caso di Gottlob Frege, il fondatore
della filosofia analitica. Simpatizzante dell’estrema destra,
Frege auspicava un «Terzo Regno» della logica.15 Il 30
tra politica e filosofia 7
aprile 1924 annotava nel suo diario: «si potrà riconoscere
che ci sono ebrei rispettabili e nondimeno si dovrà considerare
una sciagura che ci siano così tanti ebrei in Germania
e che abbiano gli stessi diritti dei cittadini di origine
ariana».16 Qualche giorno prima, il 22 aprile, confessava:
«solo negli ultimi tempi ho compreso l’importanza dell’antisemitismo
»; apprezzando l’eventualità di tempestive
«leggi contro gli ebrei», ammoniva a non dimenticare l’imposizione
di un «segno» grazie a cui «poter riconoscere un
ebreo». Vedeva, anzi, qui una «difficoltà» effettiva.17 I
curatori delle sue opere hanno provveduto a escludere il
diario con l’intento, se non di occultarlo, almeno di ridimensionarne
la portata. Certo, per leggere un trattato di
logica non è necessario occuparsi dell’antisemitismo dell’autore,
sebbene in Frege sussista più di un nesso tra il
Reich logico, quello teologico e quello politico.
Ma la filosofia non si riduce alla logica né si identifica
con la scienza; una separazione tra vita e pensiero è perciò
astratta e artificiale. Questo vale tanto più per Heidegger,
vicino al modello di Friedrich Nietzsche, il quale,
com’è noto, rivendicava la filosofia come espressione
della propria individualità. Nel sottolineare la differenza
tra filosofia e scienza, Heidegger osserva: «il punto di
partenza della via che porta alla filosofia è l’esperienza
effettiva della vita»; ma «la filosofia conduce a sua volta
oltre» ripercuotendosi sulla vita.18
Se è così, se una scelta compiuta nella vita è al contempo
anche un atto filosofico, l’impegno politico non è
un incidente riducibile al vissuto storico e, dietro al dettaglio
apparente, si cela forse un nodo filosofico.
4. Heidegger antisemita?
Qualsiasi cosa si pretenda di dire sul nazismo di Heidegger
– così si legge in una pubblicazione recente – non
8 capitolo primo
si troverà in tutta la sua opera «una sola frase antisemita
».19 L’assenza di prove al riguardo ha contribuito a
rafforzare la versione ufficiale. Se non è stato antisemita,
difficilmente Heidegger sarà stato nazista. L’errore politico
appare ridotto, l’adesione scivola in secondo piano.
Heidegger antisemita? No, non lo era. Questa è stata a
lungo la risposta prevalente. È vero che l’odio per gli
ebrei, che i nazionalsocialisti non tardarono a manifestare,
non lo indusse a prendere le distanze da quel movimento;
tuttavia la sua posizione non può essere paragonata a
quella degli ideologi della razza. Ne sono stati convinti
studiosi autorevoli come Bernd Martin e Rüdiger Safranski.
20 Ma la convinzione era diffusa persino fra i suoi
allievi ebrei, i «figli di Heidegger», come li ha chiamati
Richard Wolin con un certo sarcasmo.21 Karl Löwith,
Hans Jonas, Hannah Arendt, Herbert Marcuse: nessuna
insinuazione contro il maestro da parte loro, che altrimenti
non gli hanno lesinato critiche e rimproveri. Eppure
la loro testimonianza avrebbe potuto essere determinante.
Rispetto all’accusa più grave, quella di antisemitismo,
che renderebbe ben più motivato l’entusiasmo per il
movimento nazionalsocialista, rischiando però di mettere
a repentaglio la sua opera, vengono fatti valere due argomenti.
Il primo è di ordine biografico, e fa leva sui rapporti
personali, le amicizie, le relazioni d’amore. Come spiegare
l’attrazione magnetica che Heidegger esercitava a
Marburgo prima, e a Friburgo poi, su tanti giovani ebrei?
E l’aiuto prestato ai colleghi? Viene di solito ricordato il
nome di Werner Brock che, grazie al suo intervento, riuscì
a ottenere una borsa di studio per Cambridge. Per non
parlare delle relazioni d’amore: con Hannah Arendt, Elisabeth
Blochmann, Mascha Laléko. Come andrebbero
insieme odio e amore? E Jonas conferma: «No – sul piano
personale Heidegger non era un antisemita», Nein – Heidegger
war kein persönlicher Antisemit.22
tra politica e filosofia 9
Il secondo argomento sottolinea la lontananza di Heidegger
dal «folle sistema ideologico» dei razzisti. Il suo
nazionalsocialismo era «decisionista» – scrive Safranski.
«Per Heidegger non era determinante la provenienza,
quanto la decisione. Nella sua terminologia questo vuol
dire che l’uomo non deve essere giudicato sulla base della
“gettatezza”, ma del suo “progetto”».23 Nella costruzione
di un «nuovo mondo spirituale» non intendeva
«escludere» gli altri. Nessuna contiguità, dunque, con
l’antisemitismo rozzo e grossolano. E tanto meno con
l’antisemitismo «spirituale», che credeva di scorgere uno
«spirito ebraico» da cui occorreva difendersi.24 Tutt’al
più una certa propensione, solo accademica, a condividere
l’«antisemitismo concorrenziale» di coloro che guardavano
con preoccupazione al peso schiacciante degli
ebrei nelle università e parlavano del pericolo di una
Verjüdung, di una giudaizzazione.25
Queste due strategie difensive vengono perseguite
anche da Holger Zaborowski in un saggio che, se per un
verso ricostruisce l’intero dibattito, per l’altro prende in
considerazione i nuovi materiali venuti alla luce. Attraverso
un’indagine storica, incentrata su documenti, lettere,
testimonianze, Zaborowski mira sia a riabilitare il comportamento
di Heidegger verso gli ebrei sia, soprattutto, a
tutelarne il pensiero da ogni imputazione. Ammette una
certa ambivalenza. Ma precisa che nelle sue opere filosofiche
non vi è traccia di «un antisemitismo sistematico».26
Né si può parlare di «momenti» o fasi. Non senza forzature
e ardui equilibrismi, vengono smantellate le poche prove a
carico, tacitate le dicerie, dissipati i sospetti e i dubbi. Nessun
antisemitismo, dunque, né aperto né latente, né personale
né filosofico. Solo un paio di osservazioni, contenute
nella corrispondenza con la moglie Elfride, riconducibili a
quell’«antiebraismo universitario» che faceva parte dello
spirito del tempo.27 In mancanza di altri testi, la tesi conclusiva
è che l’antisemitismo resti lontano dal suo pensiero.
10 capitolo primo
Se questa tesi ha prevalso finora è per la difficoltà di
tenere insieme l’immagine del filosofo, che guarda alla
questione dell’essere aspirando all’autenticità, e l’immagine
del comune antisemita che con il suo gesto politico
rientra nell’anonimo man, nella medietà del «si», tanto
deprecato in Essere e tempo, quel man nazista a cui in
milioni andavano conformandosi.28
Tra le voci dissonanti si distingue quella di Jeanne
Hersch che, in un saggio del 1988, ricordando fra l’altro
il periodo di studio trascorso a Friburgo negli anni trenta,
scrive: «Heidegger non è stato antisemita, come non lo
sono di solito molti non-ebrei che, tuttavia, non sono
neppure anti-antisemiti». E, a proposito della impossibilità
di ridurre il filosofo al man nazista, si chiede se non
esistano «nella filosofia di Heidegger o, se si preferisce,
nello Heidegger filosofo, dei punti a cui ancorare la sua
adesione al nazionalsocialismo, tali da compensare, ai
suoi occhi, certi disaccordi, certe ripugnanze e, soprattutto,
da infondergli la speranza in un avvenire profetico
».29
5. Il non-detto della questione ebraica
Un nuovo capitolo si è aperto di recente nel “caso Heidegger”.
Difficilmente si potrà dire «nulla di nuovo». Si
tratta infatti del capitolo decisivo, sia perché dovrebbe
decidere una controversia aperta da tempo, sia perché
riguarda il carattere della decisione assunta da Heidegger
negli anni trenta. Gli Schwarze Hefte, i Quaderni neri
curati da Peter Trawny e pubblicati dall’editore Klostermann
nel 2014, contengono quel non-detto che molti
supponevano, o speravano, fosse anche un non-pensato.
Nell’ultima pagina del quaderno intitolato Riflessioni
XIV, all’indomani dell’offensiva tedesca a est, annunciata
da Hitler il 22 giugno 1941, Heidegger annota:
tra politica e filosofia 11
La questione riguardante il ruolo dell’ebraismo mondiale [Weltjudentum]
non è una questione razziale [rassisch], bensì è la questione
metafisica [metaphysisch] su quella specie di umanità che, essendo per
eccellenza svincolata, potrà fare dello sradicamento di ogni ente dall’essere
il proprio “compito” nella storia del mondo.30
Più volte, e in diversi contesti, Heidegger parla nei
Quaderni neri degli ebrei, dell’ebraismo e della “questione
ebraica”. A chiare lettere scrive che è una questione
non «razziale», bensì «metafisica». Contro ogni
possibile fraintendimento avverte che il tema dell’ebraismo
va affrontato entro la storia dell’Essere. Qual è il
rapporto tra l’Essere e gli ebrei? In che modo gli ebrei
minano l’Essere e la sua storia? Che nesso sussiste tra la
Seinsfrage, la questione per eccellenza della filosofia, e
Judenfrage, la questione ebraica?
Ecco dunque la novità dei Quaderni neri. L’antisemitismo
ha un rilievo filosofico e si inscrive nella storia dell’Essere.
Non è un dettaglio biografico, che possa essere
messo da parte, accantonato, dimenticato; perché ne va
dell’oblio dell’Essere. Il lavoro d’archivio lascia il posto
alla testimonianza, la ricerca meticolosa delle prove, piccole
o grandi, del coinvolgimento, la ricostruzione dell’epoca,
l’indagine sull’università tedesca, passano in
secondo piano, perdendo gran parte del loro significato,
di fronte alle riflessioni del filosofo che parla in prima
persona. Il “caso Heidegger” non può più essere considerato
una vecchia diatriba storica. Si impone, invece,
come questione filosofica che chiama direttamente in
causa i filosofi e la filosofia.
L’adesione di Heidegger al nazionalsocialismo assume
contorni ben più netti, perché si fonda su un antisemitismo
metafisico. La radicalità di questo antisemitismo
getta nuova luce sull’impegno del 1933 che non è stato né
un incidente né un errore. Piuttosto è stato l’esito di una
scelta politica coerente con il suo pensiero. E di una coerenza
esemplare appare anche il suo silenzio successivo.
12 capitolo primo
L’antisemitismo non è infatti un di più ideologico, ma è il
cardine del nazionalsocialismo. Cade così anche quella
differenza che segnava ancora per molti la distanza di
Heidegger ad esempio da Carl Schmitt o da Ernst Jünger.
Si volta pagina e si apre un nuovo capitolo in cui
devono essere sollevate domande che fin qui sono state in
gran parte aggirate. La prima, la più urgente, è la
domanda sulla Shoah nella storia della metafisica occidentale.
6. I «Quaderni neri»
A metà degli anni settanta sono stati depositati nel
Deutsches Literaturarchiv di Marbach am Neckar 34 quaderni,
rilegati con una tela cerata nera. In quell’occasione
Heidegger ha espresso il desiderio che i quaderni fossero
pubblicati al termine delle sue opere complete. Fino a
quel momento – come riferisce il figlio Hermann – avrebbero
dovuto restare segreti, «chiusi a doppia mandata».
Nessuno avrebbe dovuto né leggerli né, anzi, averne
cognizione. La volontà di Heidegger è stata solo in parte
disattesa. Il prolungarsi dell’edizione delle altre opere ha
spinto l’amministratore del suo lascito ad anticipare l’uscita
degli Schwarze Hefte.
I quaderni comprendono un periodo di quasi quarant’anni
che va, all’incirca, dal 1930 al 1970. Sono divisi
così: quattordici quaderni si intitolano Überlegungen
(Riflessioni), nove Anmerkungen (Note), due Vier Hefte
(Quattro quaderni), due Vigiliae, uno Notturno, due
Winke (Cenni), quattro Vorläufiges (Provvisorio). Sono
stati inoltre trovati altri due quaderni, Megiston e
Grundworte (Parole fondamentali) dei quali non è certa
l’appartenenza all’opera complessiva. Tutti i quaderni
sono classificati con numeri romani. Manca a tutt’oggi il
primo quaderno Überlegungen I, che risale al 1930. Non è
tra politica e filosofia 13
detto, però, che non siano andate perdute anche altre
parti. Le Überlegungen XV, scritte nel 1941, si interrompono
bruscamente e non sono corredate di un indice analitico,
che Heidegger ha invece inserito alla fine di ogni
quaderno.
Nei prossimi anni è prevista, dunque, l’uscita di tutti
gli Schwarze Hefte che, all’interno delle opere complete,
comprenderanno i volumi dal 94 al 102. Nella primavera
del 2014 è già stata portata a termine la pubblicazione
delle Überlegungen (II-XV), i tre volumi 94-96, a cui
dovrà seguire il volume 97 per concludere la parte che
giunge fino al 1945.
Sulla prima pagina delle Überlegungen II compare la
data «ottobre 1931». Nel Vorläufiges III Heidegger ha
annotato «Le Thor 1969». Questo vuol dire – osserva
Trawny – che il Vorläufiges IV deve essere stato scritto
all’inizio degli anni settanta.31 Tuttavia la scansione
numerica non indica necessariamente una linearità. Si
deve presumere che, in alcuni periodi, Heidegger abbia
lavorato contemporaneamente a più quaderni. Dato che
le correzioni sono poche, e che talvolta le note sono molto
lunghe, è probabile che esistessero dei lavori preliminari
di cui, però, non resta traccia. Gli Schwarze Hefte non
sono né annotazioni private né, tanto meno, diari; sia per
lo stile, sia per i contenuti, sia, infine, nell’intenzione dell’autore,
sono scritti filosofici.
Ma perché Heidegger ha voluto pubblicarli al termine
dell’edizione delle opere? I Quaderni neri sono il suo testamento
filosofico? Che ruolo rivestono nella sua produzione?
Perché ne aveva previsto l’uscita dopo quei trattati
inediti sulla storia dell’Essere, testi già così esoterici?
Un alone di mistero avvolge i Quaderni neri. Avrebbero
dovuto essere la parola dell’éschaton, non l’ultima, ma
quella estrema, pronunciata al bordo finale, sull’abisso del
silenzio. Di qui la posizione singolare di questo manoscritto
a cui i trattati inediti rinviano ma che, per il suo
14 capitolo primo
carattere, non può né deve essere centrale. La peculiare
eccentricità si manifesta nello stile personale, che porta
l’impronta dell’autore. Heidegger parla in prima persona,
senza troppe reticenze, con una cruda libertà, l’occhio
teso al futuro. Come se si rivolgesse a nuovi interlocutori
che, grazie alla distanza della storia, potrebbero forse
intendere in modo differente quell’epoca buia dell’Europa.
Quanto a lui, non si limita a testimoniare, ma scruta
e decifra dal suo «avamposto» che è insieme anche un
«posto di retroguardia».32 Come non pensare a Nietzsche?
Ma è lo stesso Heidegger ad avvertire che le sue riflessioni
non sono aforismi o massime di saggezza. Piuttosto sono
Versuche – è la parola che compare in una nota degli anni
settanta, scelta dal curatore come esergo – tentativi di
«nominare», né enunciati né appunti per un sistema.33
Seguono il filo della domanda, si dispiegano assecondando
quell’interrogare che è insieme contenuto e forma, tema e
stile dei quaderni. Sotto questo aspetto non trovano un
termine di paragone nell’opera di Heidegger e rappresentano
un unicum nella letteratura filosofica del Novecento.
I Quaderni neri assomigliano al diario di bordo di un
naufrago che attraversa la notte del mondo. A guidarlo è
la luce lontana di un nuovo inizio. Il paesaggio, oscuro e
tragico, è rischiarato da profondi sguardi filosofici e
potenti visioni escatologiche.
7. «Reductio ad Hitlerum». Sul processo postumo
Ben poche domande, ma molti giudizi sommari, verdetti
apodittici, asserzioni lapidarie fomentano il processo
postumo a Heidegger che, tra sentenze di primo
grado, appelli e revisioni, è entrato prepotentemente nel
ventunesimo secolo.
La pubblicazione dei Quaderni neri ha riaperto, soprattutto
in Francia, un’accesa controversia che, a ben guartra
politica e filosofia 15
dare, non era mai stata chiusa. Lo scenario ha tratti imbarazzanti
e caricaturali. Da un canto si ergono i difensori a
oltranza che, installati nel culto della personalità, respingono,
come François Fédier, ogni accusa e negano ogni
prova; dall’altro si accaniscono gli strenui e implacabili
procuratori, primo in assoluto Emmanuel Faye, che di
questa accusa sembra aver fatto la sua missione di vita.
Allievo di Jean Beaufret – che dal 1946 era stato l’interlocutore
privilegiato di Heidegger e ne aveva promosso
il pensiero nel contesto francese – Fédier aveva già replicato
al libro di Farías con un pamphlet, uscito nel 1987,
che originariamente avrebbe voluto intitolare Apologia di
Heidegger.34 Qualche tempo dopo, per respingere la violenta
requisitoria di Faye, che nel 2005 ha accusato Heidegger
di aver introdotto il nazismo nella filosofia, Fédier
ha riunito intorno a sé un gruppo di studiosi pubblicando,
nel 2007, la miscellanea Heidegger, à plus forte raison.35
Non presso i filosofi, ma nella stampa, nei media e nel
grande pubblico, la voluminosa opera di Faye ha avuto un
successo strepitoso ed è stata salutata come la nuova e
definitiva vittoria dei lumi sulle tenebre. Il refrain «Heidegger
è nazista» viene ripetuto con solerte costanza
quasi a ogni pagina. Prove, testimonianze, documenti
vengono presentati, in un intreccio più asfissiante che
stringente, per supportare l’accusa e chiedere l’incriminazione;
il dossier appare completo e il filosofo, «contaminato
» dal nazismo, non sembra sfuggire più alla meritata
condanna. Quale? La proscrizione perpetua: la sua opera
«non può continuare a figurare nelle biblioteche di filosofia
».36 D’altronde, Heidegger non è neppure un «filosofo
», e l’autore confessa di essere stato guidato dalla
«necessità vitale di veder la filosofia liberarsi della sua
opera».37 L’improvvisato inquisitore propone, dunque,
che la filosofia proceda al contempo a una scomunica –
esiste una scomunica filosofica? – e ammetta la sua definitiva
débacle.
16 capitolo primo
Le semplificazioni di Faye, che talvolta sfiorano l’assurdo
– ad esempio quando crede di scorgere una svastica
nella figura heideggeriana del Geviert, il “quadruplice” –
possono apparire a un primo sguardo convincenti. Ma
problematica è proprio l’argomentazione semplificativa
che, con una nota formula, introdotta da Leo Strauss
all’inizio degli anni cinquanta, si può chiamare una reductio
ad Hitlerum. Si tratta di un «procedimento erroneo»,
una fallacy, e cioè una variante della reductio ad absurdum:
si riconduce e si riduce la tesi dell’avversario alla
posizione di Hitler, metonimia del male.38 È in relazione
a Heidegger, e al suo pens








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