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RIFRAZIONI DEL SUBLIME. DALL’ ORRORE AL GROTTESCO - rifrazioni-del-sublime-dall_-orrore-al-grottesco-di-giuseppe-panella.pdf
RETROGUARDIA
quaderno elettronico di critica letteraria a cura d
i Francesco Sasso
1
Giuseppe Panella
N. 17
RIFRAZIONI DEL SUBLIME.
DALL’ ORRORE AL GROTTESCO
(C) 2009 Giuseppe Panella 


   
RETROGUARDIA
quaderno elettronico di critica letteraria a cura d
i Francesco Sasso
2
RETROGUARDIA
quaderno elettronico di critica letteraria a cura d
i Francesco Sasso
3
«
Sublime
. Termine designante un tipo di esperienza estetica
– fatta oggetto di ampia discussione –
che è distinta da quella di bello. Nell’estetica co
ntemporanea ogni riferimento al sublime è da tempo
caduto in disuso. Già Benedetto Croce negava a ques
to concetto una genuina valenza estetica,
ravvisando in esso un esclusivo riferimento morale;
ma neppure in questa sede la filosofia del
nostro secolo ha ritenuto opportuno riservare al su
blime sviluppi concettuali nuovi o fecondi»
(Enciclopedia Garzanti di Filosofia)
«
Rifrazione.
Deviazione dei raggi luminosi, rispetto alla direz
ione originaria, che si verifica sulla
superficie di separazione di due mezzi otticamente
diversi quando i raggi passano dal primo al
secondo mezzo» (Enciclopedi
a Europea Garzanti)
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4
1.
Sul crinale dell’ombra: considerazioni inattuali
L’esercizio della ricerca può insegnarci a evitare
equivoci, non a fare scoperte fondamentali. Ci
rivela le nostre impossibilità, i nostri limiti sev
eri. Questa mia possibile ricostruzione teorica con
variazioni sul tema del sublime può essere attribui
ta ad un genere: la storia concettuale di figure (o
momenti) dell’esperienza estetica e letteraria. Si
tratta di un tentativo che ha bisogno di un terreno
assai fertile di coltura per avere qualche possibil
ità di successo dato che l’espressione prima
utilizzata può essere considerata quasi un ossimoro
: il concetto si forma attraverso astrazioni, la
letteratura (la poesia, soprattutto) mediante le su
e immagini, i suoi sogni, i suoi miti fondativi.
La ricerca prova a convogliare e a far confluire, i
n un unico alveo, diversi e maestosi fiumi. Il
maestro di questo genere filosofico-letterario è st
ato, in anni ancora non troppo lontani, Eugenio
Garin. In quello saggistico, non temo di fare i nom
i di Jorge Luis Borges, Paul Valéry e Miguel de
Unamuno. Modelli forse irraggiungibili, naturalment
e, ma pur sempre modelli di un tentativo di
portare i concetti e la vita fino a un limite estre
mo di tensione. Le pagine che seguiranno tentano di
percorrere una via intermedia che non è ancora la “
via regia” della filosofia ma non vuole neppure
rivolgersi soltanto al puro sensazionalismo della s
crittura, al vuoto ricercare a vuoto l’effetto dell
a
parola bella perché vuota di senso e non riempibile
se non di effimere alchimie verbali...
«Se mi passo la mano sulla fronte, / se accarezzo l
e costole dei libri, / se riconosco il Libro delle
Notti, / se forzo l’ostinata serratura, / se mi sof
fermo sulla soglia incerta, / se il dolore incredib
ile mi
annienta, / se ricordo la Macchina del Tempo, / se
ricordo l’unicorno sull’arazzo, / se mi rigiro
mentre sto dormendo, / se la memoria mi riporta un
verso, / ripeto ciò che ho fatto innumerevoli /
volte nell’assegnato mio cammino. / Io non posso es
eguire un gesto nuovo, / tesso e ritesso la
scontata favola, / ripeto un ripetuto endecasillabo
, / dico quello che già altri mi dissero, / sento l
e
stesse cose nella stessa / ora del giorno o dell’as
tratta notte. /
In ogni notte si ripete l’incubo, / ogni
notte il rigore del labirinto. / Sono la fatica di
uno specchio immobile / o la polvere di un museo. /
Solo una cosa non gustata attendo, / un regalo, un
oro dentro l’ombra, quella vergine morte. (Lo
spagnolo / permette la metafora) »
Sono versi di Borges
1
e, se i primi endecasillabi mi appartengono come m
etafora proiettiva, non
credo, invece, nell’infeconda inutilità degli ultim
i. Qualcosa, alla fine, resta sempre di ciò che con
ta.
Il proposito che mi ha spinto nell’elaborazione di
questo testo ulteriore sul Sublime è stato quello d
i
rendere mobile, dinamico e luccicante ancora un con
cetto che rischiava di riflettere soltanto la
morta gora dell’erudizione e della curiosità scolas
tica da
Wunderkammer
o di arrugginire sotto il
peso di possibili interpretazioni troppo brillanti
esibite per rendere ragione dell’opacità dello sfor
zo
concettuale. Se “ogni notte il rigore del labirinto
” riconduce il testo mutilo e segreto di Longino ai
suoi epigoni più o meno grandi e innovativi, se, ci
oè, la vicenda del Sublime si rinnova ogni volta
che di esso artisti, critici letterari e cultori di
estetica dimostrano di avere necessità e desiderio
,
doverlo dichiarare è diventato oggi indispensabile,
snidandolo dove esso si nasconde o è fin troppo
palese perché chi lo cerca sia poi in grado di ritr
ovarlo (come è accaduto per la grande esperienza
della scrittura novecentesca – da James Joyce a Tho
mas Mann, da Gottfried Benn a Ezra Pound giù
giù fino a Wallace Stevens, tutti autori in cui il
Sublime conosce un più o meno effimero trionfo).
Per questo motivo, la struttura di questo saggio po
trà sembrare in alcuni momenti oscillante,
sfocata, invece, in altri punti di riflessione, com
e avviene quando si proietta la copia di certi vecc
hi
film, ma risulterà pur sempre saldamente incastonat
a nella dura intelaiatura di un
progetto di
ricerca
: il Sublime appartiene, infatti, alla dimensione p
rofonda e non rimuovibile della conoscenza
del rapporto tra soggetto e oggetto ed ogni tentati
vo di liberarsene, sciogliendolo dialetticamente
1
J. L. BORGES, “Ecclesiaste, 1-9” in
La cifra
, trad. it. a cura di D. Porzio, Milano, Mondadori,
1988
2
, pp. 35-37.
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5
come ha provato inutilmente lo Hegel dell’
Estetica
2
) è destinato, invece, al fallimento del suo
tornare, indenne, a funzionare comunque. Anche per
una ragione ben precisa.
Ogni esistenza in via di compimento, così come ogni
progetto letterario e ogni tentativo di
raggiungere il livello del “grande stile” (come vol
eva Nietzsche) presuppone un momento di
sospensione e di tregua.
«Soltanto i giovani hanno tali momenti. Non parlo d
ei giovanissimi. No. I giovanissimi, a dire il
vero, non hanno momenti. E’ privilegio della prima
giovinezza vivere oltre il presente, nella bella
ininterrotta speranza che non conosce pause o intro
spezione. Ci si chiude alle spalle il cancelletto
della pura fanciullezza e si entra in un giardino i
ncantato. Persino le sue ombre brillano di speranza
,
ogni svolta del sentiero ha le sue seduzioni. E non
perché si tratti di un paese inesplorato. Si sa be
ne
che tutta l’umanità ha percorso quella strada. E’ i
l fascino dell’esperienza universale, dalla quale c
i
si aspetta una sensazione personale o straordinaria
– un po’ di noi stessi. Riconoscendo le orme dei
predecessori si va avanti, eccitati, divertiti, fac
endo tutt’uno della cattiva e della buona sorte – d
el
buono e del cattivo tempo, come si dice – la pittor
esca sorte comune che serba tante possibilità per
chi ha qualità o, forse, fortuna. Già si va avanti.
Anche il tempo va avanti, finché si scorge innan
zi
a noi una linea d’ombra che ci avverte che la regio
ne della prima gioventù, anch’essa, la dobbiamo
lasciare indietro. Questo è il periodo della vita i
n cui possono venire i momenti di cui ho
parlato...»
3
.
Una stasi, dunque, che non sia puro attendere, un i
ndugio che non sia un mero trattenersi, un
meditare che non risulti il puro impedirsi di cresc
ere e di andare successivamente più avanti.
Le secche tranquille dell’esistenza presuppongono s
empre che la nave possa arenarsi da un
momento all’altro; l’attesa senza tempo di ciò che
sta per arrivare e che non si conosce ancora
anche se, forse, non lo si vuole neppure portare al
la luce, indica soltanto che qualcosa sta per
accadere. Sarà il momento giusto, dopo aver tremato
per l’angoscia di aver preso la decisione
sbagliata; sarà il momento adatto per capire quali
leve vadano mosse e quali non possono essere
azionate ancora proficuamente. Ogni esistenza compo
rta una serie di ricerche minuziose (lo stesso
avviene di solito anche nella pratica teorica della
letteratura e della filosofia): la prima di esse –
che
è fondamentale ma, in fondo, del tutto inutile – è
offerta dalla sicura volontà di sopravvivere;
nonostante l’orrore che esso comporta, si tratta pu
r sempre dell’atto più puro che ogni uomo possa
compiere senza vergognarsene. In esso, ciò che è or
ribile è legato inseparabilmente al Sublime (e,
infatti, in questo caso, essere diventa
simile
a resistere). La seconda – l’antica beffa giocata d
a
Platone all’Occidente – è la caccia alla propria im
magine riflessa in un
altro
specchio, la sanzione
definitiva del proprio essere autentico in una dive
rsa esistenza: la richiesta di ricostituire l’unità
spezzata dell’androgino, la prova di non risultare
sempre uguali a se stessi.
2
Come scrive lo stesso Hegel: “La prima purificazi
one radicale e la prima esplicita separazione fra c
iò che è in sé e per
sé e la presenza sensibile, cioè la singolarità emp
irica dell’esterno, va cercata nella
sublimità
, che innalza l’assoluto
oltre ogni esistenza immediata, realizzando così la
liberazione dapprima astratta, che è nondimeno la
base dello
spirituale. Infatti il significato così sublimato n
on è ancora concepito come spiritualità concreta, m
a tuttavia è
considerato come l’interno in sé essente e poggiant
e, incapace per sua natura di trovare la sua vera e
spressone in
fenomeni finiti. Kant ha fatto una distinzione molt
o interessante fra belle e sublime, e quel che egli
ha detto nella prima
parte della
Critica del giudizio
(§§ 20 sgg.) conserva sempre il suo interesse, non
ostante ogni prolissità e la riduzione,
posta a base, di tutte le determinazioni al soggett
ivo, alle facoltà dell’animo, l’immaginazione, la r
agione ecc. Questa
riduzione deve essere ritenuta esatta nel suo princ
ipio generale in rapporto a
quel
lato per cui la sublimità, come dice
Kant, è contenuta non nelle cose della natura ma so
lo nel nostro animo, inquantoché noi siamo coscient
i della nostra
superiorità sulla natura in noi e quindi anche fuor
i di noi. [...] Il sublime in generale è il tentativo
di esprimere l’infinito
senza trovare nel regno dei fenomeni un oggetto che
si mostri adeguato a questa rappresentazione. L’in
finito, proprio
perché è per sé posto fuori dell’intero complesso d
ell’oggettività e interiorizzato come significato v
isibile e privo di
forma, rimane inesprimibile nella sua infinità e su
periore ad ogni espressione per mezzo del finito“ (
G. W. F. HEGEL,
Estetica
, ed. it. a cura di N. Merker, trad. it. di N. Vac
caro e N. Merker, Torino, Einaudi, 1993
11
, pp. 409-410).
3
J. CONRAD,
La linea d’ombra
, trad. it. di F. Arcangeli e G. Festi, Milano, Bo
mpiani, 1980
2
, p. 11.
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6
La terza indagine indispensabile è quella rivolta a
lla definizione del proprio destino (ricerca che
unifica le precedenti, senza però fonderle: si può
volere l’Altro ma non ritrovare se stessi).
A questo stadio si accede attraverso una scelta che
è il segno di una maturità conseguita
autenticamente: attraversare il mare d’ombra del no
n-pensato è ciò che permette, poi, di passare
indenni attraverso il deserto di ghiaccio del conce
tto del proprio esistere. Nel momento di
passaggio, allora, avviene sempre, tuttavia, che si
indugi, per paura o per eccessiva precipitazione –
quella rapidità nell’esecuzione che paralizza il pe
nsiero.
Come nel romanzo di Conrad citato sopra in cui le v
ele della nave rimangono perfettamente
immobili, così nella vita sembra che più nulla poss
a accadere ancora.
Calma estiva e bonaccia sono simboli di uno stesso
malessere – di un indugiare che,
paradossalmente, conduce alle stesse scelte di semp
re.
Gli errori più vecchi si mescolano ai nuovi e vengo
no tenuti insieme raccolti dal collante dell’oblio.
Mai come quando si attraversa la linea d’ombra si i
mpara quanto l’oblio sia potente e la memoria
ottusa. Solo allora, la sostanza del proprio destin
o (intellettualmente avviluppato com’è a quello
generale della specie) si sovrappone allo sforzo di
dimenticarsene e lo sconfigge.
Il Sublime è la linea d’ombra della teoria estetica
– come quella che attende ciascun marinaio
all’Equatore, essa attende pazientemente che le teo
rie del Bello incappino in qualche punto debole,
in una falla, in una dimentica beanza di sé. Solo a
llora scatta la scelta del “nobile sentire”, del
sentimento del dolore che risana, del terrore che a
ppaga e dà piacere, dell’immaginazione che
ricrea, senza averlo mai ri-conosciuto, un mondo co
mpletamente diverso che si riflette nello spirito
creativo e lo rincorre.
2.
Il Sublime, l’Orrore, l’ Incommensurabile: le categ
orie della prossimità tragica del mondo
Il Sublime artistico, nel modo in cui sembra fin da
l principio caratterizzare la Modernità, deriva
direttamente dal processo di secolarizzazione del d
ivino – alludendo ad esso e alle sue metamorfosi
nella Natura, l’esperienza dolorosa a assolutamente
necessaria della rivoluzione copernicana e della
perdita di centro da parte dell’uomo viene decantat
a attraverso le forme più disparate (e più terribil
i)
di manifestazione di questa crisi epocale. Secolari
zzazione e prospettiva artistica continueranno
(come si vedrà in seguito) ad intersecarsi e non so
lo attraverso l’assunzione salvifica del Sublime
4
.
Dopo la sua radicale ridiscussione nelle pagine del
le lezioni hegeliane sull’estetica, il
pathos
della
bellezza transiterà nella sua antitesi apparente e
rifulgerà nell’apoteosi del grottesco. La figura di
Cristo morto (già recitata come epicedio per l’uman
ità da Jean Paul
5
) risorgerà nella passione,
4
Cfr. R. BODEI,
Le forme del bello
, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 83-84: “Una volta c
rollato il rassicurante ordine
dell’universo tolemaico centrato sulla Terra e sull
’uomo, il sistema copernicano appare come una minac
cia, che spinge
l’uomo – pascaliano “re spodestato” – all’esilio o
alla prigione in un “carcere buio”, posto nella “pi
ù profonda sentina”
dell’universo. La sfida al cosmo non assume più il
carattere di una orgogliosa esaltazione che sminuis
ce il valore del
mondo di fronte alla sconfinata grandezza del nostr
o pensare e sentire. Subentra la paura, la percezio
ne
dell’incommensurabile inadeguatezza dell’uomo rispe
tto a un ordine che, nella meccanica celeste e terr
ena, si
comprende ormai secondo perfette leggi universali,
ma di cui non si afferra invece il senso che eventu
almente ha per
noi. La “ferita narcisistica” subita dalla specie u
mana quando viene relegata alla periferia del “crea
to” è risarcita solo in
parte dalla maggiore attenzione a questo mondo prom
ossa dalle arti, dalla nascente riflessione estetic
a e dalle teorie
scientifiche, che mostrano, come non mai, la piena
razionalità del mondo fisico e, in prospettiva, di
quello storico. A
partire dal Seicento, scienza e arte sembrano così,
a torto, procedere in direzioni divergenti: la pri
ma rende intelligibile
la realtà “materiale” (in quanto la matematica si a
pplica ora con esattezza anche alla fisica, la qua
le cessa così di essere
una
techne
); la seconda, a sua volta, che pare non tenere il
passo con la scienza, ne elabora invece i traumi e
ne utilizza i
risultati, aprendo anch’essa nuove strade al pensie
ro e alla sensibilità. In questa situazione, la nos
tra unica dignità è,
pascalianamente e kantianamente, quella di sfidare
l‘universo, sapendo di essere destinati fisicamente
alla sconfitta
finale, ma di avere su ciò che ci distrugge una su
periorità intellettuale e morale”.
5
Cfr. J. PAUL (Richter),
Il discorso del Cristo morto
, trad. it. di B. Bianchi, Milano, SE, 1997.
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7
sempre rinnovata, sempre rassegnata, della
facies
ridicola e dolcissima
6
del
clown
, del saltimbanco,
di Pierrot e di Gilles fino a stravolgersi nel dram
ma inutile e necessario del professor Un-rath
7
.
Sarà questa, probabilmente, l’ultima metamorfosi di
Socrate: da Sileno a
clown
, da
clown
a
saltimbanco, da saltimbanco a docile giocattolo nel
le mani di una
femme fatale
(come accade al
protagonista di
L’Angelo azzurro
di Heinrich Mann).
Questo tragitto sarà percorso nel prosieguo dell’in
dagine qui appena iniziata.
Il punto di partenza rimane il Sublime: nella sua s
toria e nella sua definizione concettuale è
consacrata la parabola del Trascendente da acquisi
zione certa a dolente nostalgia, da sicuro punto
di approdo a lacerante necessità
8
. Dal Terrore come catastrofe politica e sofferenza
senza
6
Il suo emblema è rappresentato dal volto devastato
e sublime di Gwynplaine, l’Uomo che ride del roman
zo omonimo
di Victor Hugo del 1869. “E improvvisamente, in que
ll’ombra, un raggio di luce colpiva Gwynplaine in p
ieno viso. Si
vedeva sbocciare il mostro dalle tenebre. La commoz
ione della folla era indescrivibile. La risata sorg
eva come un sole,
tale era l’effetto. Il riso nasce dall’inatteso, e
nulla poteva essere più inatteso di quello scioglim
ento. Lo schiaffo di luce
sulla maschera buffa e terribile produceva un’impre
ssione impareggiabile. Tutti ridevano, dappertutto:
in alto, in basso,
sul davanti, in fondo; gli uomini, le donne, i vecc
hi, i rosei volti dei bambini, i buoni, i cattivi,
la gente allegra, quella
triste, tutti; e nella via anche i passanti, che pu
re non vedevano, udendo ridere, ridevano. E il riso
finiva in un batter
furioso di mani e di piedi. Calata la tela, si rich
iamava Gwynplaine con frenesia. Era un successo eno
rme. Avete visto
Vittoria sul caos
? Tutti accorrevano a Gwynplaine. Gli spensierati v
enivano per ridere, i tristi venivano per ridere, l
e
coscienze inquiete venivano per ridere. Una risata
così irresistibile che qualche volta poteva sembrar
e epidemica“ (V.
HUGO,
L’uomo che ride
, trad. it. di C. Marini, Milano, Garzanti, 1976, p
. 291). Sul tema del Grottesco in relazione al
Sublime per quanto riguarda la scrittura di Victor
Hugo, cfr. la buona antologia
Sul grottesco
, trad. it. e cura di M.
Mazzocut-Mis, Introduzione di E. Franzini, Milano,
Guerini e Associati, 1990 (contiene la celebre
Prefazione
alla
tragedia
Cromwell
e alcuni passi del saggio dedicato a
William Shakespeare
).
7
Il professor Unrat, ovvero La fine di un tiranno
è il titolo di un celeberrimo romanzo di Heinrich
Mann meglio noto
come
L’Angelo azzurro
(dal titolo del film che Josef von Sternberg ne tr
asse nel 1930 e che fu interpretato
magistralmente da Emil Jannings nel ruolo di Unrat
e di Marlene Dietrich in quello della sua amante-pa
drona Lola-
Lola; un
remake
del 1959 diretto da Edward Dmytryk con Curd Jürge
ns e May Britt non conobbe eguale risonanza
nell’immaginario collettivo nonostante la buona pro
va dei due attori). Heinrich Mann ben sapeva che co
sa era e doveva
essere il Sublime se mette in bocca al suo protagon
ista una frase del genere: “A questo punto la voce
di Unrat si tramutò
in una voce da sottosuolo: “Lei non è degno di acco
starsi – con la sua misera e insulsa penna – ala su
blime figura
muliebre di cui stiamo per occuparci. Fuori ! Nello
sgabuzzino!”” (H. MANN,
Il professor Unrat – L’Angelo azzurro
,
trad. it. e cura di G. Schiavoni, Milano, Mondadori
, 1991, p. 41). Unrat sta rimproverando il suo alli
evo von Ertzum a
proposito di quello che ha scritto su Giovanna d’Ar
co, la protagonista del celebre dramma di Friedrich
Schiller oggetto
di un compito in classe). Su Heinrich Mann e il suo
destino di scrittore, cfr. il lucido saggio di J.
FEST,
I maghi ignari.
Thomas e Heinrich Mann
, trad. it. di M. Bistolfi, Bologna, Il Mulino, 198
9. Di un certo interesse sono anche il saggio
di F. CAMBI, “L’opposizione arte-vita fra ‘800 ne
‘900 in Heinrich e Thomas Mann”, in “Annali I.U.L.M
. di Felte”, 5,
1981, pp. 31-67; la
Nota
di B. MAFFI alla sua traduzione del romanzo, Milan
o, Rizzoli, 1953, pp. 5-10; la voce
Heinrich Mann
contenuta in L. MITTNER,
Storia della letteratura tedesca. Dal realismo alla
sperimentazione (1820-
1970)
, Torino, Einaudi, 1971, pp. 1039-1049 e il poderos
o volume di W. H. SOKEL,
Demaskierung und Untergang
Wilhelminischer Repräsentanz. Zum Parallelismus der
Inhaltsstruktur von “Professor Unrat” und “Tod in
Venedig”
,
Tübingen, Niemeyer, 1976.
8
R. BODEI,
Le forme del bello
cit. , pp. 84-85: “La “dignità” (termine che diven
terà decisivo nella riflessione morale
ed estetica) del pensiero e la nobiltà d’animo non
è altro che la dignità del sublime: di fronte alle
dimensioni e alle forze
oscure del mondo, sono consapevole della mia nullit
à (di mancare di valore nell’economia dell’universo
), del rischio di
venire anzi schiacciato e annientato alla loro pote
nza, di essere una canna piegata da tutti i venti,
ma “canna che pensa”.
Ed è proprio questo scatto di orgoglio, questo mode
rno revanscismo del pensiero e dell’umanità contro
la natura tutta,
che suscita il sentimento del sublime. In quanto co
nosco la mia insignificanza dinanzi al mondo, la mi
a grandezza non
consiste più nell’aderire mimeticamente al suo ordi
ne, ma nel crearne un altro, nell’istituire un uman
o “regno dei fini”,
difficile e quasi impossibile da governare. Mi acco
rgo di essere fuori posto, disarmonico e comunque n
on integrato nel
cosmo: vivo così la mia sproporzione immaginando un
a disperata rivincita. Gran parte dell’estetica bar
occa e
protoromantica è, in effetti, un’estetica della spr
oporzione, della dismisura, della disarmonia. Riman
da a un ordine, a
una proporzione e a un’armonia eventuali, celati, n
el migliore dei casi, alla ragione e oscuramente in
tuibili, invece,
attraverso l’arte o la fede in un “Dio nascosto” qu
ale garante del fatto che le cose abbiano, alla fin
e, un senso. Alle
vertigini provocate dallo sprofondare con lo sguard
o nell’immensità dello spazio si aggiungono, a part
ire dalla fine del
Seicento, quelle prodotte dalla percezione dell’imm
ensità del tempo, che la geologia scopre analizzand
o la
conformazione di rocce e minerali. Ci si accorge co
sì che la Terra non è stata creata in sei giorni e
che sicuramente
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8
giustificazione per coloro che ne sono assoggettati
al culto per le rovine, vera e propria epifania de
l
passato, il Moderno assimila il legato classico del
la sublimità e lo trasforma in qualcosa che è
radicalmente diverso dal Bello magniloquente e ampl
ificato che l’Anonimo (per tradizione
etichettato come lo Pseudo-Longino) aveva descritto
e codificato nelle pagine per noi rimaste
mutile del suo ambizioso trattato retorico. Eventi
storici, allora, e/o trasformazioni materiali in
profondità costellano il passaggio dalla concezione
aristotelica del Bello come armonia e moralità a
quella, protoromatica (
et ultra
) del Sublime come orrore e terrore, considerazione
disumana
dell’umano ed umana tensione verso una salvezza che
non può arrivare se non dal “salto mortale”
verso il Trascendente (come avviene nel caso di Höl
derlin e di von Kleist, ma non soltanto per essi).
René Girard lo ha dimostrato esaurientemente analiz
zando la disperazione romantica che nasce dal
rinnegare la trascendenza pur aspirandovi:
«Dietro tutte le dottrine occidentali che si susseg
uono da due o tre secoli vi è sempre il medesimo
principio: Dio è morto, tocca all’uomo prendere il
suo posto. La tentazione dell’orgoglio è eterna
ma diventa irresistibile nell’era moderna poiché è
orchestrata e amplificata in maniera inaudita. La
“buona novella” moderna è intesa da tutti. Quanto p
iù profondamente si scolpisce nel nostro cuore,
tanto più violento è il contrasto tra questa merav
igliosa promessa e la brutale smentita che le
infligge l’esperienza. A mano a mano che si gonfian
o le voci dell’orgoglio, la coscienza di esistere
si fa più amara e solitaria. Eppure essa è comune a
tutti gli uomini. Perché questa illusione di
solitudine che acuisce la pena? Perché gli uomini n
on possono alleviare le loro sofferenze
condividendole con altri? Perché la verità di tutti
è sepolta in fondo alla coscienza di ognuno? Tutti
gli uomini scoprono nella solitudine della loro cos
cienza che la promessa è fallace, ma nessuno è
capace di universalizzare questa esperienza. La pro
messa rimane vera per gli
altri
. Ciascuno si
crede l’unico escluso dal retaggio divino e si sfor
za di nascondere la maledizione. Il peccato
originale non è più la verità di tutti gli uomini c
ome nell’universo religioso, ma il segreto di ciasc
un
individuo, l’unico possesso della soggettività che
ad alta voce proclama la sua onnipotenza e la sua
padronanza radiosa. [...]. Le vittime del vangelo mo
derno diventano così i suoi migliori alleati.
Quanto più si è schiavi tanto più ci si accalora a
difendere la schiavitù. L’orgoglio può sopravvivere
solo grazie alla menzogna. Ed è la menzogna che man
tiene in vita il desiderio triangolare. L’eroe si
rivolge appassionatamente a questo
altro
che sembra fruire, lui sì, del retaggio divino. La
fede del
discepolo è tanto grande che egli si crede sempre s
ul punto di carpire il segreto meraviglioso al
mediatore. Da quel momento in poi ne gode in antici
po. Si distoglie dal presente e vive
nell’avvenire radioso. Nulla lo separa dalla divini
tà, nulla, tranne il mediatore stesso il cui deside
rio
rivale è di ostacolo al suo desiderio»
9
.
Il ragionamento di Girard è riferito all’intero “un
iverso di discorso” del Moderno (in particolare,
alla riflessione metafisica di Dostoevskij), ma tro
va autorevole e drammatica conferma nella
descrizione che von Kleist compie dell’orrore che
la condizione umana gli sembra diventata dopo
l’evento epocale della rivoluzione del 1789. Allo s
tesso modo, ma sondandolo poeticamente,
scomparirà, sebbene non così presto come ritengono
i sostenitori dell’Apocalisse. Essa appare infatti
il risultato
dell’energia, tuttora operante, di immani forze cat
astrofiche, di cataclismi accumulatisi in milioni d
i anni. La
consapevolezza di questi abissi del tempo provoca u
no spavento che non è connesso soltanto alla consta
tazione della
potenza della natura., ma anche a quella della cadu
cità e della fragilità di tutto, compreso l’uomo. I
l mondo è immenso,
ma finirà; esiste da tanto, ma sarà distrutto. Noi
godiamo del discutibile vantaggio di saperlo, mentr
e le pietre o gli
animali lo ignorano. Diventiamo in tal modo coscien
ti del contrasto tra l’aspirazione immotivabile di
ciascuno a una
felicità senza limiti e la fine annunciata di tutte
le cose. La nascita del sublime moderno è così leg
ata alla coscienza dei
destini, insieme intrecciati e separati, della natu
ra e dell’uomo che ha scoperto il “progresso”. Dal
punto di vista del
sublime, non si tratta tanto di sottomettere e umil
iare la natura, ma anche (e per compensazione) di c
onoscerla e
innalzarla nella nostra considerazione, conservando
ne intatta la potenza e la maestà”.
9
R. GIRARD,
Menzogna romantica e verità romanzesca
, trad. it. di L. Verdi-Vighetti, Milano, Bompiani
, 1981
2
, pp.
51-53.
RETROGUARDIA
quaderno elettronico di critica letteraria a cura d
i Francesco Sasso
9
ammonisce, invece, sulla necessità del riscontro de
ll’umano nel campo dell’evidenza del divino
proprio Hölderlin nei versi iniziali del suo inno
Patmos
:
«Vicino / E difficile ad afferrare è il Dio. / Ma d
ove è il pericolo, cresce / Anche ciò che ti salva.
/
Nelle tenebre vivono / Le aquile e senza paura / Va
la prole delle Alpi sopra l’abisso / Su
lievemente costruiti ponti. / Ora, poi che ammassat
e in cerchio / Stanno le vette del tempo / E i più
amati abitano vicino, languendo / Sui monti più sep
arati, / Oh, dacci acqua innocente, / Dacci ali a
varcare di là / Con fedelissimo animo e ritornare.
// Così parlavo quando / Più veloce ch’io non
credessi e lontano / Dove mai sognato avevo / Di gi
ungere, un Genio mi rapì / Dalla mia casa.
Balenavano appena / Nel dubbio lume ove andavo / L
’ombrosa foresta / E le acque desiderose /
Della mia terra; non più conoscevo i paesi. / Quand
’ecco, in fresco bagliore, / Misteriosissima / Nel
fumo d’oro / Sbocciò crescendo rapida / Coi passi d
el sole / Con gl’incensi di mille vette / l’Asia ai
miei occhi...»
10
.
Nella pesantezza della vita e nella levità della po
esia risiedono i due poli della metamorfosi del
Sublime in epoca romantica
11
. Di conseguenza, la
Befriedigung
è ridotta a sostanza della
contraddizione tragica dalla crisi che risulta dall
e trasformazioni sociali che esplodono con la
double Revolution
(la Rivoluzione Francese che è il trionfo del Poli
tico e la Rivoluzione Industriale,
sanzione, invece, dell’Economico) e l’ “appagamento
” si rivela, di conseguenza, soltanto una sosta
di fronte alle macerie del passato, ascolto appassi
onato della sua voce (come avviene in Hölderlin
12
e von Kleist), senza che si realizzi di nuovo la po
ssibilità di ricondurre l’armonia nel sistema della
storia e della poesia. La sospensione della morte è
soltanto l‘attesa di qualcosa di forse ancora più
spaventoso – la perdita di senso della vita che si
manifesta attraverso la consapevolezza
dell’esistenza dei limiti della ragione (come accad
e nel Kant della prima
Critica
) e dell’importanza
del caso (come, invece, in von Kleist).
La rappresentazione di questo processo come è esemp
lificato nella stagione classica del
Gothic
Novel
è stato brillantemente sintetizzato da Marshall Bro
wn:
10
F. HÖLDERLIN,
Poesie
, trad. it. e saggio introduttivo di G. Vigolo, Tor
ino, Einaudi, 1967
2
, pp. 156-157. La
dimensione religioso-mistica della scrittura del po
eta di Lauffen sul Neckar è confermata dall’uso ste
sso delle fonti che
affiorano da una lettura più in profondità del suo
testo. Scrive, infatti, Vigolo nel suo saggio intro
duttivo: “Ma nello
stesso inno
Patmos
, vicino alle derivazioni sofoclee, pindariche e an
che omeriche (Iliade, I, 197), pullulano le citazio
ni
bibliche ed evangeliche: “
Die Locken ergriff...
(“Li prese ai capelli...”) nella nona strofa, viene
da Ezechiele, VIII, 3:
Manus
apprehendit me in cincinno capitis mei:... et elevavi
t me Spirits inter terram et coelum
”. Quest’ultima
immagine dell’elevazione, del raptus visionario può
ben corrispondere a quanto Hölderlin dice nella se
conda strofe
dello stesso inno, parlando del Genio che lo rapisc
e nell’aria e lo porta velocissimo verso l’Asia. Ne
l passo citato di
Ezeciele, lo Spiritus: “
adduxit me in Jerusalem in visione Dei
”” (p. XLVIII). Sulla poesia hölderliniana e la sua
pregnanza filosofico-concettuale, cfr. M. PEZZELLA,
La concezione tragica di Hölderlin
, con un saggio di R. Bodei
(
L’esattezza delle
parabole
), Bologna, Il Mulino, 1993 e S. GIVONE,
La questione romantica
, Roma-Bari, Laterza,
1992, in particolare il capitolo secondo dal titol
o “Contraddizione e silenzio” (pp. 41-67).
11
Lo mostra bene nella sua acuta parafrasi di questo
passaggio centrale per la mia analisi, R. BODEI ne
l suo
“Tenerezza per le cose del mondo”. Sublime, spropor
zione e contraddizione in Kant e in Hegel” contenut
o in
Hegel
interprete di Kant
, a cura di V. Verra, Napoli, Prismi, 1981, pp. 214
sgg.
12
Sempre da Hölderlin: “
Lo spirito del tempo
. Già da troppo tu domini sopra il mio capo, / Tu n
ella oscura nuvola, dio
del Tempo! / Troppo furore è intorno e angoscia, ov
unque / Io guardi tutto va in frantumi o vacilla. /
/ Ah, come un
fanciullo mi affisso al suolo sovente, / Cerco uno
scampo da te nella grotta e vorrei, / Stolto, trova
re un luogo / Dove
non fossi tu che tutto sconvolgi! // Concedimi, inf
ine, o padre, d’affrontarti / Con fermo ciglio ! No
n hai dunque, per
primo, lo spirito / Suscitato in me col tuo raggio,
non m’hai / Splendidamente alla vita portato, o pa
dre ! // – Ci
germoglia da giovani viti sacro vigore, / In mite a
ura si fa incontro ai mortali, / Quando silenti err
ano nel boschetto, /
Rasserenante un dio; ma tu, più potente, ridesti //
La pura anima nei giovanetti e insegni / Sagge art
i agli anziani; solo il
malvagio / Si fa più malvagio, per finire più prest
o, / Quando tu, o Scuotitore, lo ghermisci ” (F. HÖ
LDERLIN,
Poesie
cit., p. 37).
RETROGUARDIA
quaderno elettronico di critica letteraria a cura d
i Francesco Sasso
10
«Supponiamo ora di considerare i romanzi gotici com
e esperimenti mentali che provano i limiti non
solo della sopportazione umana, ma più specificamen
te della ragione umana. E’ dopo tutto tipico
che i primi romanzi gotici dedichino molto più spaz
io ai pensieri e alle sensazioni delle vittime, e
(spesso) del demone persecutore, che non ai meccani
smi della punizione e del tormento. Che
resterebbe di un uomo, si chiedono questi romanzi,
se ogni associazione umana, ogni comune
percezione, ogni prevista regolarità di causa ed ef
fetto fossero strappate via? Essi, in altre parole,
si
chiedono che cosa sia l’uomo in sé, privato dei sup
porti esterni che condizionano le nostre
esperienze di tutti i giorni. A quali risorse, amme
sso che ne abbia, può attingere la mente in
isolamento ? Qual è la natura della coscienza pura
13
.
La dislocazione del Sublime permette di affrontare
la perdita di senso che l’improvvisa fine della
relazione tra soggetto e oggetto, tra causa ed effe
tto, tra percezione e percipiente potrebbe
comportare; serve, in sostanza, a stabilire la natu
ra effettiva della conoscenza quando venga
deprivata dal supporto dell’esperienza. La sua funz
ione è quella di andare
oltre
: comprendere
completamente il “mondo misterioso al di là dei lim
iti della ragione”
14
. O riuscire ad accettare il
dominio del caso, padroneggiandone gli effetti, imp
edendo che sia capace di sovrastare gli sforzi di
comprensione razionale compiuti dalla mente umana.
La
Gothic Sublimity
annulla il mito della completa decrittabilità del
mondo reale e crea zone
d’ombra al suo interno, alternandole a sprazzi di l
uce.
Le contraddizioni, intessute nel suo contesto socia
le, emergono intatte a livello formale: la ragion
pura non spiega l’insorgenza del Negativo e non sup
era quei limiti che essa stessa si è data se non
nella consapevole accettazione della verità antinom
ica della conoscenza. Il soggetto che viene ad
essere così costituito dalla sua stessa incapacità
ad avere centro, a ricevere unità d’intenti e
consapevolezza di sé dal baricentro dell’Io, non è
più in grado di ritrovarsi come tale e mostra il
proprio disagio (la propria
Un-ruhe
) attraverso forme artistiche che non sono più rico
nducibili al
reame di Armonia.
Ancora Marshall Brown:
«Imprigionata nell’oscurità e tagliata fuori dall’e
sperienza concreta, la vittima gotica rigenera
dall’interno il proprio spazio e tempo, le pure for
me kantiane dell’intuizione sensibile. Inseguita da
i
Doppelgänger
e ossessionata dai demoni, ella mette alla prova l
e categorie di quantità e qualità.
Messa di fronte a poteri soprannaturali, la vittima
esperimenta la nascita della casualità. Tagliata
fuori dalle proprie radici, ella rimane categoricam
ente legata all’universo per mezzo dei poteri
trascendentali di ciò che Kant chiama la comunità.
E soprattutto il mondo gotico rimane
inspiegabile, così come il mondo di Kant, poiché è
pervaso di contraddizioni. Il fato e il caso, il
finito e l’in-finito, le persistenze di entità irre
ali e l’annullamento di quelle reali: il gotico è
prevalentemente il mondo dell’antinomia»
15
.
Nella categoria (se di categoria in questo caso si
può parlare – come io penso sia possibile a ragion
veduta
16
) di
incommensurabile
, l’antinomia si scioglie nella riflessione sul dom
inio
dell’immaginazione sulle cose. Costruendo la defini
zione di un oggetto che non dovrebbe avere
13
M. BROWN, “Kant e i demoni della notte” in “Studi
di estetica”, 4-5, 1984 (
Atti
del Convegno
Il Sublime: creazione
e catastrofe nella poesia
, 30-31 ottobre 1984), a cura di V. Fortunati e G.
Franci, p. 160.
14
M. BROWN, “Kant e i demoni della notte” cit. , p.
161.
15
M. BROWN, “Kant e i demoni della notte” cit. , p.
163.
16
Sul concetto di
incommensurabile
in Kant, Derrida, Victor Hugo e Robert Musil, ho s
critto con una certa ampiezza in
“Raffigurazioni dell’incommensurabile. Il Mostruoso
, il Colossale, l’Inquietante” contenuto nel mio
Il Sublime e la
prosa. Nove proposte di analisi letteraria
, Firenze, Clinamen, 2005, pp. 123-146.
RETROGUARDIA
quaderno elettronico di critica letteraria a cura d
i Francesco Sasso
11
definizione, l’immaginazione supera l’ostacolo epis
temologico rappresentato dalla contraddizione
tra finito ed infinito e articola quest’ultimo into
rno alle sue condizioni di possibilità: il possibil
e
diventa reale, il sogno acquista la dimensione e l
o statuto dell’esperienza, l’inesprimibile viene
descritto. Il Sublime nasce, allora, proprio dall’e
spressione del disagio e della forza dell’Io che
emergono da questo stato di cose; la ricerca della
conciliazione parte dalla conferma della sua
impossibilità.
L’incommensurabile può essere misurato solo dai car
atteri che contraddistinguono gli oggetti che
ad esso fanno riferimento; la precisione dell’espre
ssione nasce dalla vaghezza dei suoi termini.
Non tanto l’impalpabilità e la scarsa precisione de
ll’ineffabile sembra costituire la natura segreta d
el
Sublime, quanto la sua capacità di riordinare ciò c
he la ragione lascia scompigliato, di organizzare
ciò che i sensi hanno soltanto appreso confusamente
, di regolare ciò che il gioco
dell’immaginazione potrebbe liberare improduttivame
nte.
Il Sublime permette il dominio del e sul caso, il c
he è l’orrore per la ragione.
E’ quello che avviene in von Kleist dove è l’immagi
nazione produttiva a filare le trame della
razionalità, non l’intelletto o l’esperienza preced
ente. La tragedia
Penthesilea
e
Das Käthchen von
Heilbronn
, come lo stesso von Kleist riconosceva in una lett
era del 1808, “vanno insieme come il +
e il – dell’algebra “; allo stesso modo,
Das Erdbeben in Chile
e
Der Zweikampf
hanno la stessa
funzione nell’ambito delle sue prove narrative. In
essi, quella forma di controllo sulla casualità cui
si accennava precedentemente ne rinnova, tuttavia,
l’effetto perturbante e ciò che viene spiegato,
alla fine, risulta tuttavia inspiegabile
17
.
Pentesilea, regina delle Amazzoni, uccide ciò che a
ma, sbrana ciò che teneramente avrebbe
accarezzato, polverizza il suo bisogno d’amore in p
reda alla furia incomposta del distruggere. Il
trionfo del negativo avviene in presenza di un posi
tivo: le due qualità non si elidono, ma coesistono.
Non scarica psicopatologica, ma descrizione metafis
ica, il dramma di Pentesilea è nell’irresolubilità
dell’antinomia tragica, nella irriducibilità dell’a
more e dell’odio, nell’incommensurabilità del
sentimento alla ragione e della passione all’
ethos
.
“Tutta la sozzura e insieme tutto lo splendore dell
a sua anima”: sono parole di von Kleist; tutta la
carica disarmonica del
pathos
viene utilizzata per dimostrare l’inconsistenza del
la prescrizione
dell’armonia. In questa mancanza di compostezza, ne
lla sua impudica esibizione e nella
disperazione che l’avvolge, è la forza del Sublime
kleistiano.
Caterina di Heilbronn nasconde nella sua tenerezza
la dedizione al sogno che l’ha destinata
all’uomo della sua vita. Nella fedeltà a ciò che è
intessuto di menzogna, la passionalità dei
sentimenti si fa largo ridicolizzando la freddezza
calcolatrice dell’intelletto. In un caso come
nell’altro, l’impossibilità di sfuggire al destino
è compensata dalla sicurezza con cui l’appello
all’imponderabile è accettato come sola verità (ide
ntico sarà il caso del protagonista del
Prinz von
17
Ne è prova il finale del
Principe di Homburg
(un dramma del 1811 sfortunato e spesso negletto,
mai pubblicato né
rappresentato in vita dell’autore perché giudicato
“inopportuno” dato il momento storico vissuto dalla
Germania):
“(
Rombo di cannoni. Una marcia. Il castello si illumi
na
)
KOTTWITZ
Viva, viva il principe di Homburg!
UFFICIALI
Viva! Viva! Viva!
TUTTI
Al vincitore della battaglia di Fehrbellin! (
un attimo di silenzio
)
HOMBURG
No, dite! E’ un
sogno?
KOTTWITZ
Un sogno, che altro?
DIVERSI UFFICIALI
Al campo, al campo!
TRUCHSS
Alla battaglia!
MARESCIALLO DI CAMPO
Alla vittoria! Alla vittoria!
TUTTI
Nella polvere i nemici di Brandeburgo!” (H. von
KLEIST,
Il principe di Homburg
, a cura di H. Dorowin, introduzione e traduzione
di R. Rossanda, Venezia, Marsilio,
1997, p. 251). Come scrive la Rossanda nella sua
Introduzione
al testo di von Kleist: “
Il principe di Homburg
è
un’elegia sulla bella giovinezza che duole. Diffici
le distinguere fra passione e ragione, capire il se
nso per gli altri,
dunque reale, dell’agire che dentro di sé, dunque i
rrealmente? pare giusto. Perché la legge del cuore
induce un ragazzo
a sbagliare, Homburg a dover morire? Che ha a che f
are con il retto e germanico sentire una legge così
“sublime” da
diventare “inumana”, come dirà Natalia all’Elettore
? Oltre a stare in quegli anni, come sta eternament
e fra essere e
dover essere, in un esercito in guerra il tema si d
isegna in figure estreme. Così estrema è la contrad
dizione che
Homburg è sempre colto di sorpresa: “No, impossibil
e, non è vero”. Non che sia il solo cui la realtà s
i presenta
sfuggente, ma questa che sembra in Kleist la condiz
ione umana mette un giovane con le spalle al muro,
lo nega. La
maturità ne è il duro apprendistato “ (p. 22).
RETROGUARDIA
quaderno elettronico di critica letteraria a cura d
i Francesco Sasso
12
Homburg
, vittima inconsapevole della collisione dei doveri
, dove, tuttavia, lo scarto non è tra etica
e realtà, tra morale ed effettualità, ma tra sogno
e razionalità, impulso e riflessione).
In von Kleist crolla la fiducia nella consequienzia
lità di causa ed effetto: non c’è più virtù
raziocinativa che possa resistere alla furia del te
rrore dispiegato. Nessun imperativo, nessun
sentimento di naturale pietà, nessuna considerazion
e umanitaria reggono il filo sottile che collega
bestialità e socievolezza
18
: la sorte di Jeronimo e Josepha, massacrati dalla
folla che li considera
colpevoli del terremoto che ha distrutto Santiago d
el Cile
19
(nella novella omonima) fa da
pendant
alla vendetta che Pentesilea consuma su Achille. Il
“bacio che è un morso ed il morso che è un
bacio” (insanabile contraddizione contenuta nell’
eros
) è l’immagine che consegna poeticamente
l’intera contraddizione del soggetto alla dilaceraz
ione esterna. Gli abitanti di Santiago che trovano
in un caso estemporaneo la causa di ciò che non rie
scono a spiegare si accontentano di un simulacro
di verità; la violenza degli elementi e quella dell
e passioni si integrano nella catastrofe tragica e
impediscono che si giunga al predominio della lampa
nte chiarezza della razionalità. Il crollo è
generale e, come Santiago è spazzata via dalla natu
ra, così i due amanti sono vittime della ragione
impazzita che li vuole colpevoli di ciò che non pos
sono aver commesso. La paura e il fanatismo
(due facce della stessa medaglia nella secolarizzaz
ione in atto) rendono incommensurabili le cause
con i loro effetti. Allo stesso modo, i protagonist
i del duello che dà il titolo alla novella omonima
sono giocati da un destino più grande di loro e viv
ono una vicenda in cui sono importanti più o
meno quanto le marionette nelle mani del loro burat
tinaio
20
.
18
“Si raccontava che subito dopo la prima scossa la
città era piena di donne che partorivano al cospett
o di tutti gli
uomini; che i monaci correvano intorno col crocefis
so in mano urlando che era venuta la fine del mondo
; che a un
drappello di guardie, il quale pretendeva in nome d
el viceré che si sgombrasse una chiesa, si era risp
osto che non
esisteva più un viceré del Cile; che nei momenti pi
ù paurosi il viceré aveva dovuto eriger patiboli pe
r frenare le ruberie
e i saccheggi; e un innocente che si era salvato at
traverso una casa in fiamme, era stato acciuffato d
al padrone per
soverchia fretta e fatto impiccare senz’altro” (H.
von KLEIST, “Il terremoto nel Cile”, in
I
racconti
, trad. it. e cura di E.
Pocar, Milano, Garzanti, 1979
2
, pp. 150-151).
19
Meravigliosa e inquietante è la descrizione del te
rremoto di Santiago del Cile nel racconto omonimo d
el 1807:
“Jeronimo Rugera rimase rigido dal terrore, e come
se la sua coscienza fosse stata infranta, ora per n
on cadere si
aggrappò al pilastro doveva aveva voluto morire. Il
suolo gli traballava sotto i piedi, le pareti dell
a prigione si
spaccarono, tutto l’edificio s’inclinò per abbatter
si verso la strada, e il crollo completo fu impedit
o nella sua lenta
caduta soltanto dalla caduta dell’edificio dirimpet
to, dimodoché si venne a formare una volta fortuita
. Tremando, coi
capelli ritti, e con le ginocchia che gli si voleva
no rompere sotto, Jeronimo scivolò sul pavimento in
clinato verso
l’apertura che il cozzo delle due case aveva prodot
to nella facciata della prigione. Appena fu all’ape
rto, tutta la strada
già scossa crollò per un secondo movimento telluric
o. Fuori di sé, non sapendo come si sarebbe salvato
da quella
generale rovina, correva oltre travi e rottami, men
tre la morte lo insidiava da ogni lato, verso una d
elle più vicine porte
della città. Qui crollava ancora una casa che lanci
ando all’intorno le macerie lo cacciava in una via
laterale; là vi erano
fiamme che lampeggiando tra nubi di fumo, erompevan
o dai tetti e lo spingevano in un’altra; lì incontr
ava il Mapocho
straripato che gli andava contro e ruggendo lo tras
cinava in una terza. Qua v’era un mucchio di ammazz
ati, là s’udiva
gemere ancora una voce di sotto le rovine; qui urli
che scendevano da tetti in fiamme, lì lotte di uom
ini e bestie contro
le onde, qui un coraggioso si sforzava di recare ai
uto, là un altro, pallido come la morte, alzava le
mani tremanti al cielo,
in silenzio” (H. von KLEIST, “Il terremoto nel Cil
e”, in
I
racconti
cit. , pp. 144-145).
20
E’ quello che si desume dal colloquio finale in ca
rcere tra Federico von Trota e l’amata Littegarda:
“Dio
onnipotente!” esclamò messer Federico abbracciandol
e le ginocchia; “ti ringrazio. Le tue parole mi rid
anno la vita: la
morte non mi fa più paura; e l’eternità, che dianzi
si stendeva davanti a me come un mare di sterminat
o dolore, mi
risorge come un regno di mille soli luminosi !” – “
O infelice!” disse Littegarda ritraendosi, “ come p
uoi prestar fede a
ciò che dicono le mie labbra ?” – “Perché no?” dom
andò Federico con ardore. – “Pazzo! folle!” esclamò
lei. “ La sacra
sentenza di Dio non è stata contro di me? Non fosti
sconfitto dal conte in quel fatal duello e non ha
egli dimostrato con
la spada la verità della sua accusa contro di me?”.
– “O dilettissima Littegarda” implorò il camerleng
o, “preserva la tua
mente dalla disperazione! Ergi come una roccia il s
entimento che vive nel tuo cuore, aggrappati a ques
ta e non vacillare,
quand’anche la terra e il cielo dovessero crollare
sotto e sopra di te! Tra due pensieri che confondon
o la mente
pensiamo il più comprensibile e razionale, e prima
che tu ti reputi colpevole, crediamo piuttosto che
nel duello che
combattei per te io abbia vinto!”. – Dio, signore d
ella mia vita” aggiunse in quel momento coprendosi
il viso, “preserva
anche l’anima ma dalla confusione! Non credo, e sia
salva l’anima mia, di essere stato sconfitto dalla
spada del mio
avversario, poiché pur buttato sotto la polvere del
suo piede sono risorto a nuova vita. Può avere la
suprema saggezza
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